Commissione Tributaria Provinciale di Milano
Seminario 13 dicembre 2017
Sommario:
1. La giurisdizione delle Commissioni tributarie;
2. L’ampliamento della giurisdizione tributaria secondo la giurisprudenza della Cassazione;
3. Le controversie tributarie: le azioni proponibili al giudice tributario;
4. Modello impugnatorio ed oggetto del processo tributario;
5. Atti non impugnabili;
6. Gli atti ad impugnazione differita e gli atti endo-procedimentali;
7. Cenni sull’istituto dell’interpello;
8. L’interpello relativo a fattispecie antielusive;
9. Impugnabilità della risposta all’interpello: giurisprudenza a confronto;
10. L’intervento del legislatore: l’art. 6, comma 1, D. Lgs. 156/2015;
11. Discrezionalità amministrativa ed eccesso di potere (rinvio).
Allegata Scheda su “Discrezionalità amministrativa ed eccesso di potere”
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La giurisdizione delle Commissioni tributarie
Nel sistema delineato dal D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, l’accesso al sindacato del giudice non è illimitato, ma passa necessariamente attraverso l’impugnazione di atti che, per la loro rilevanza, meritano l’immediato controllo da parte del giudice, su impulso della parte interessata ed entro un preciso termine di decadenza, di modo ché l’atto non impugnato diventa definitivo e consente la prosecuzione dell’azione erariale.
Gli altri atti dell’Amministrazione finanziaria, se non provocano conseguenze dirette sulla sfera del contribuente, non sono immediatamente impugnabili sino a quando non venga emesso l’atto autoritativo ed impositivo direttamente impugnabile [c.d. atti a tutela differita].
Come si vedrà infra sub § 2, alla dualità degli atti autonomamente impugnabili e degli atti impugnabili in via differita, la Cassazione ha affiancato una terza categoria di atti impugnabili, se e quando il giudice vi abbia ravvisato la manifestazione di una pretesa impositiva, pur in assenza della forma tipica del provvedimento autoritativo, con la precisazione che il contribuente potrà e dovrà, comunque, ricorrere avverso l’atto autoritativo tipico [successivamente notificato], diventando, altrimenti, definitivo, a prescindere dall’impugnazione del precedente atto.
Quanto alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, secondo l’art. 2, D. Lgs. 546/1992 comprende «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il servizio sanitario nazionale, le sovraimposte e le addizionali, le relative sanzioni, nonché gli interessi e ogni altro accessorio»[1].
La giurisdizione delle Commissioni deve, quindi, rispettare il perimetro della materia tributaria: in altri termini, la giurisdizione si definisce sulla base della natura tributaria della lite, con conseguente centralità della nozione di tributo.
Tributo è un termine generico, non definito dalla legge, che comprende tradizionalmente – ponendosi come genus – imposte, tasse e contributi[2].
E’ un punto fermo in dottrina che il tributo comporti la nascita di un’obbligazione, con effetti definitivi ed irreversibili [la c.d. obbligazione tributaria].
Caratteristica strutturale del tributo è la sua coattività e cioè l’essere imposto da un atto dell’autorità[3], che ha il potere – derivante dalla legge – di costituire il rapporto tributario e di imporre il pagamento del tributo. Dal punto di vista funzionale, il tributo ha rilievo costituzionale, concorrendo alla spesa pubblica ai sensi dell’art. 53 Cost.
Tornando alla giurisdizione, se essa si definisce sulla base della natura tributaria della controversia, allora l’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19, D. Lgs. 546/1992 e/o la situazione soggettiva dedotta in giudizio non attengono alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda[4]: ne segue che l’impugnazione di un atto non compreso nell’art. 19 cit., non impedisce di affermare l’appartenenza della lite alla giurisdizione tributaria[5].
Per l’affermazione della giurisdizione non rileva la natura della posizione soggettiva lesa sia essa un diritto soggettivo o un interesse legittimo: l’art. 103 Cost. [che attribuisce alla giurisdizione amministrativa la tutela degli interessi legittimi nei confronti della Pubblica amministrazione] non esclude, infatti, che, in determinati casi, la giurisdizione amministrativa, nell’ambito della quale si colloca quella tributaria, tuteli diritti soggettivi[6].
Il giudice tributario è quindi giudice sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi[7].
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L’ampliamento della giurisdizione tributaria secondo la giurisprudenza della Cassazione
La struttura impugnatoria del processo tributario è stata negli ultimi dieci anni rimessa in discussione dalla giurisprudenza della Cassazione, che succede al precedente orientamento che negava l’impugnabilità degli atti non compresi nell’elenco di cui all’art. 19.
Ad esempio, la Cassazione aveva negato l’impugnabilità:
- degli avvisi bonari [Cass. civ., 11 febbraio 2005, n. 2829],
- dell’invito al pagamento prodromico all’iscrizione a ruolo dell’iva [Cass. civ., 18 aprile 2008, n. 10179],
- dell’invito al pagamento notificato dal Comune prima dell’iscrizione a ruolo [Cass. civ., 6 dicembre 2004, n. 22869],
- dell’invito a fornire dati e notizie in ordine alle annotazioni nei conti bancari [Cass. civ., 18 aprile 2003, n. 6232].
A seguito della novella dell’art. 2, D. Lgs. 546/92 [ad opera della L. 448/2001], la Cassazione, ha progressivamente maturato un diverso orientamento, che si è concretamente delineato negli anni tra il 2007 ed il 2012: dalla generalizzazione della giurisdizione tributaria a tutti i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, ha dedotto l’ampliamento degli atti impugnabili ogni qualvolta il contribuente ritenesse di contestare la pretesa manifestata dall’Amministrazione finanziaria [v. Cass. civ., Sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, che ha riconosciuto la giurisdizione tributaria in materia di autotutela].
Con le successive sentenze nn. 16293 e 16428 del 2007, la Cassazione ha proseguito nel suo processo di ridefinizione del perimetro della giurisdizione tributaria, attribuendo al giudice il compito di valutare, caso per caso, tra tutti gli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria, quelli da qualificare come atti di accertamento o liquidazione, quindi, impositivi, perché portanti «una pretesa tributaria ormai definita, ancorchè tale comunicazione si concluda, non con una formale intimazione di pagamento, sorretta dalla prospettazione in termini brevi dall’attività esecutiva, bensì un invito bonario a versare quanto dovuto» [Cass. civ., Sez. un., 24 luglio 2007, n. 16293 e Cass. civ., Sez. un., 26 luglio 2007, n. 16428].
Nello stesso anno la Cassazione è nuovamente intervenuta, a seguito delle incertezze suscitate dalle pronunce citate, per precisare che, qualora il giudice ravvisi , a fronte della comunicazione di una pretesa fiscale non portata da un atto autoritativo tipico, l’interesse del contribuente ad impugnare, ad esso si debba affiancare la facoltà di farlo: si tratta di una facoltà riconosciuta al contribuente «il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa in un secondo momento, quando essa si rivesta della forma autoritativa propria dell’atto impositivo tipico ricompreso nell’elenco dell’art. 19» [Cass. civ., sez. V, 8 ottobre 2007, n. 21045].
Diventano così impugnabili quegli atti non autoritativi che sono «idonei a portare a conoscenza i presupposti di fatto e le ragioni di diritto della pretesa impositiva o del diniego del diritto vantato dal contribuente e siano quindi astrattamente suscettibili di fondare l’interesse all’impugnazione ex art. 100 c.p.c.» [Cass. civ., sez. V, 6 novembre 2013, n. 24916].
Il nuovo indirizzo ha consentito l’ammissibilità dell’impugnazione:
- dell’invito al pagamento [Cass. civ., 8 ottobre 2007, n. 21045 in tema di Tosap],
- dell’invito bonario di riscossione [Cass. civ., Sez. un., 24 luglio 2007, n. 16293],
- delle fatture emesse per la riscossione della tassa rifiuti [Cass. civ., 9 agosto 2007, n. 17526],
- del bollettino di ccp per il pagamento dell’imposta sulla pubblicità [Cass. civ., 17 dicembre 2010, n. 25591],
- delle comunicazioni di irregolarità ex art. 36-bis, co. 3, D.P.R. 633/1972 [Cass. civ., 28 novembre 2014, n. 25297].
La costruzione del nuovo sistema della giurisdizione, è stata ulteriormente definita dalla Suprema Corte che, nel 2012, ha precisato che, nonostante l’impugnazione della comunicazione anticipata della pretesa erariale, ciò che importava, per scongiurare la decadenza e la definitività del rapporto d’imposta, era, comunque, il ricorso contro l’atto autoritativo tipico, che avrebbe determinato l’estinzione del precedente giudizio per la cessazione della materia del contendere [Cass. civ., Sez. V, 11 maggio 2012, n. 7344].
Quanto alle ragioni sottese al nuovo orientamento, l’impugnabilità degli atti non autoritativi veniva giustificata dalla necessità di rispettare i principi costituzionali di buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. e di effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost.: l’argomentazione per la sua genericità non persuade fino in fondo posto che il principio di buon andamento della pubblica amministrazione non pare violato dal rispetto dell’art. 19 e che non si avverte l’imprescindibile necessità della tutela giurisdizionale in presenza di atti che non ledono posizioni soggettive.
Quanto all’ampliamento della giurisdizione tributaria a seguito della novella dell’art. 2, D. Lgs. 546/1992 da parte dell’art. 12, co. 2, L. 448/2001, essa non sembra giustifichi alcuna innovazione e tantomeno il richiamo astratto all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., posto che detto interesse già ricorreva ex lege nell’impugnazione degli atti elencati dall’art. 19.
Come sottolineato, secondo la Cassazione, l’allargamento della platea degli atti impugnabili agli atti che non producono immediatamente effetti lesivi per il contribuente, non comporterebbe l’obbligo della loro impugnazione, ma attribuirebbe al contribuente la relativa facoltà: da qui l’inquadramento di questi atti nella categoria dei c.d. atti ad impugnazione facoltativa[8].
Resta l’impressione di una incoerenza di fondo del sistema della giustizia tributaria così delineato, dove facoltà dell’impugnazione non si sostituisce all’obbligo di dover impugnare, dopo l’avviso bonario od un altro atto simile, l’atto autoritativo finale che definisce il rapporto tributario[9], con evidenti diseconomie processuali, aggravio dei costi di accesso alla giustizia e probabile violazione del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, co. 2, Cost., posto che il rapporto d’imposta oggetto della controversia, pur contestato in due giudizi, resta lo stesso.
Si deve comunque registrare che l’orientamento si è andato consolidando nella giurisprudenza di legittimità.
Sul punto la dottrina si è divisa tra i favorevoli sulla base dell’assunto di una maggiore tutela offerta al contribuente [G. Ingrao, R. Lupi] ed i contrari al nuovo orientamento [F. Tesauro, G. Glendi, L. Ferlazzo Natoli, A. Carinci].
Con riguardo, infine, alla fattispecie della risposta negativa all’istanza di interpello, si tratta di uno di quegli atti sulla cui qualificazione, in termini di autonoma impugnabilità, si sono registrate le maggiori perplessità nella giurisprudenza di merito: all’argomento è dedicato il §§ 9-10.
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Le controversie tributarie: le azioni proponibili al giudice tributario
Prima di affrontare la questione dell’impugnabilità della risposta all’interpello del contribuente, è opportuno ripercorrere per brevi cenni le caratteristiche del processo tributario, con riferimento al suo oggetto.
Come precisato, appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie che hanno per oggetto rapporti tributari caratterizzati dalla presenza di un soggetto dotato di potestà impositiva e dall’esercizio di detto potere attraverso un atto impugnabile: ciò si desume dall’art. 2, D. Lgs. 546/1992, che definisce l’oggetto della giurisdizione, dalla tipologia dei soggetti tra i quali può insorgere la lite, indicati dall’art. 10, D. Lgs. cit. e dalla proponibilità dell’azione contro uno degli atti espressione della potestà impositiva elencati dall’art. 19, D. Lgs. cit.
Diretta conseguenza della struttura delineata dalla legge della giurisdizione è la non impugnabilità degli atti non autoritativi, perché non lesivi di una posizione soggettiva.
Alle Commissioni tributarie sono affidate le impugnazioni degli atti amministrativi individuali indicati nell’art. 19, D. Lgs. cit., mentre al giudice amministrativo spetta il potere di annullare regolamenti e atti amministrativi generali: al di fuori dell’area riservata al giudice tributario, riprendono, dunque, vigore i criteri generali di riparto della giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi, per cui spettano a questi ultimi le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di regolamenti ed atti amministrativi generali[10].
Le azioni proponibili sono:
- le azioni di impugnazione – annullamento;
- le azioni di condanna;
- le azioni cautelari;
- le azioni per l’ottemperanza.
Non sono ammissibili o proponibili le azioni di accertamento o dichiarative: l’esclusione dipende dalla struttura del processo tributario costruito attorno alle azioni di annullamento totale o parziale di uno degli atti indicati nell’art. 19, D. Lgs. cit., entro un termine di decadenza stabilito dall’art. 21, D. Lgs. cit. [ndr. 60 giorni].
La stessa previsione di un termine di decadenza per l’impugnazione esclude le domande di mero accertamento in quanto le azioni dichiarative – di regola – non tollerano decadenze.
Il ricorso si propone nei confronti dei soggetti indicati nell’art. 10, D. Lgs. 546/1992 e deve contenere, unitamente ai motivi, l’indicazione dell’«atto impugnato»: solo nel caso dell’impugnazione del silenzio – rifiuto alla domanda di rimborso, il processo non è rivolto all’impugnazione di un atto.
Il petitum della domanda tributaria è comunque necessariamente l’annullamento, totale o parziale, dell’atto impugnato perché illegittimo.
L’impugnazione può fondarsi su vizi formali o sostanziali dell’atto: i vizi formali sarebbero naturalmente irrilevanti se il processo tributario avesse ad oggetto l’accertamento del rapporto d’imposta.
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Modello impugnatorio ed oggetto del processo tributario
Le azioni di impugnazione si propongono contro uno degli atti impugnabili indicati nell’art. 19[11][c.d. sistema duale].
Gli atti impugnabili si dividono in due categorie: gli atti autonomamente impugnabili ed atti a c.d. tutela differita e cioè gli atti non impugnabili autonomamente, ma attraverso e con l’atto successivo.
L’elenco degli atti impugnabili è tassativo, in quanto il legislatore non ha inquadrato gli atti impugnabili con una formula generale – come, ad esempio, ha fatto nel processo amministrativo ove l’art. 11 cod. proc. amm. devolve alla giurisdizione amministrativa le controversie aventi per oggetto «provvedimenti, atti, accordi o comportamenti» – ma ha elencato autonomamente singoli atti, chiudendone l’elenco con la precisazione del terzo comma dell’art. 19, secondo cui «gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente».
Secondo la dottrina [Tesauro], nell’interpretazione dell’art. 19 cit. sarebbero ammesse letture estensive, ma non integrazioni analogiche: sarebbe dunque possibile ampliare l’insieme degli atti impugnabili, ma a condizione che resti l’impianto di un processo che ruota intorno all’impugnazione di atti autoritativi.
Nell’esegesi dell’art. 19 il giudice può privilegiare opzioni che allarghino il perimetro degli atti impugnabili autonomamente, ma senza disconoscere la tassatività dell’elenco, né la distinzione tra atti impugnabili ed atti a tutela differita.
Peraltro, nell’attuale sistema duale, introdotto nel 1981[12], con la definizione di un numero chiuso di atti impugnabili e di una classe aperta di atti a tutela differita, l’interpretazione analogica si presenta prima che inammissibile, inutile.
Volgendo lo sguardo al modello del processo tributario, il suo meccanismo, imperniato sull’impugnazione del provvedimento impositivo, sulla base di motivi di impugnazione che costituiscono la causa petendi della domanda di annullamento dell’atto,
- rende improponibili le domande di mero accertamento[13], nonché quelle che pongono questioni estranee all’atto impugnato[14];
- impone all’Amministrazione di difendere l’atto impugnato sulla base della sua motivazione[15];
- determina l’inammissibilità di domande/eccezioni riconvenzionali[16];
- proibisce al contribuente di opporre alla pretesa fiscale una domanda di rimborso, che può proporsi solo in opposizione ad atti di diniego dell’Ufficio[17];
- fa divieto al giudice di sostituire gli atti annullati[18];
- fa divieto al giudice di impugnare atti amministrativi generali, consentendo la loro cognizione e disapplicazione solo in via incidentale[19].
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Atti non impugnabili
Per stabilire quali atti non siano impugnabili autonomamente, ma lo siano in via differita, il criterio da seguire è quello del processo amministrativo e cioè che sono impugnabili gli atti espressione di una funzione amministrativa propria delle Autorità fiscali, che producano effetti giuridicamente lesivi.
Non sono per converso impugnabili gli atti interni[20], come le circolari[21], le risoluzioni, né gli atti espressione di funzione consultiva, come i pareri, né gli atti confermativi o esecutivi.
Il processo verbale di constatazione non è impugnabile perché non è produttivo di effetti: è un atto «il cui contenuto e le cui finalità consistono nel reperimento e nell’acquisizione degli elementi utili ai fini dell’accertamento». La non impugnabilità del pvc non determina un vuoto di tutela «atteso che la non impugnabilità deriva dalla sua natura di atto endo-procedimentale e la tutela giudiziaria ha modo di attuarsi in relazione all’atto terminale del procedimento»[22].
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Gli atti ad impugnazione differita e gli atti endo-procedimentali
L’art. 19 indica gli atti che si possono impugnare autonomamente ed in via immediata, ma ammette l’impugnazione di qualsiasi atto lesivo, anche non nominato nell’articolo, non immediatamente ma con ricorso contro gli atti successivi, rispetto ai quali l’atto non impugnabile autonomamente ha il valore di un atto presupposto.
Ciò significa che il contribuente quando riceve la comunicazione di un atto non ricompreso tra quelli autonomamente impugnabili, deve attendere la notificazione dell’atto autonomamente impugnabile per ricorrere contro entrambi.
La tutela differita non viola principi costituzionali, come riconosciuto dalla Consulta che ha precisato che «gli artt. 24 e 113 Cost. non impongono una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, la quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia, sempre che il legislatore osservi il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali» [Corte cost., 23 novembre 1993, n. 406].
La tutela immediata è quindi esclusa contro gli atti intermedi, ma rinviata agli atti finali dei procedimenti tributari[23]. Al giudice il compito di individuare, tra gli atti non nominati dall’art. 19, quelli ad impugnazione differita e quelli non impugnabili.
6.a) Gli atti istruttori
Il sindacato del giudice tributario sugli atti indicati dall’art. 19 investe – nella cornice dei motivi del ricorso – tutte le fasi del procedimento che ha portato alla formazione dell’atto impugnabile. Gli atti istruttori si collocano nel procedimento impositivo come atti intermedi, la cui contestazione è differita all’impugnazione del provvedimento finale[24].
6.b) Il diniego di autotutela
In tema di impugnazione del diniego di autotutela è necessario distinguere tra ammissibilità ex art. 19, D. Lgs. 546/1992 e fondatezza del ricorso.
il ricorso è ammissibile contro il diniego espresso di annullamento in autotutela, trattandosi di un atto con effetti impositivi riconducibile all’elenco di cui all’art. 19 cit.
Bisogna distinguere il caso in cui il diniego di autotutela costituisca mera conferma del precedente provvedimento, dal caso in cui il diniego costituisca un nuovo atto impositivo diverso dal precedente conseguente ad una nuova istruttoria.
Nel primo caso, la conferma del precedente atto senza istruttoria non integra una nuova imposizione e non può essere impugnato[25].
Nel secondo caso, il contribuente deve impugnare il diniego allegando i vizi del nuovo atto, adottato all’esito del rinnovato procedimento e non solo vizi dell’atto precedente[26].
Lo stesso criterio distintivo per l’impugnabilità del diniego (nuovo provvedimento impositivo con attività istruttoria/di riesame ovvero semplice conferma del precedente) vale per i casi di annullamento parziale o revoca dell’atto precedente[27].
Il silenzio opposto alla domanda di autotutela, non essendo riconducibile ad alcuna previsione dell’art. 19 cit., non è impugnabile autonomamente, ma in via differita, insieme con il successivo atto lesivo (ad esempio, l’iscrizione a ruolo o il diniego di rimborso).
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Cenni sull’istituto dell’interpello
La disciplina legale dell’interpello, recentemente riorganizzata dagli artt. da 1 a 8, D. Lgs. 24 settembre 2015, n. 156[28], ha la sua origine nell’art. 21, L. 30 dicembre 1991, n. 413, che, sul modello del procedimento amministrativo, ha previsto la facoltà per il contribuente di domandare pareri all’Amministrazione con riferimento all’applicazione delle norme antielusive.
Ai sensi del terzo comma dell’art. 21, il parere reso dall’Ufficio aveva efficacia esclusivamente ai fini e nell’ambito del rapporto tributario e, nell’eventuale fase contenziosa, sulla parte che non si fosse conformata al parere, sarebbe gravato l’onere della prova[29].
Successivamente lo Statuto dei diritti del contribuente, di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, introdusse all’art. 11 la previsione generalizzata dell’interpello, volta a consentire al contribuente di conoscere il parere dell’Amministrazione finanziaria per l’applicazione di disposizioni tributarie nel caso concreto, quando vi fossero obiettive condizioni di incertezza sulla loro interpretazione[30], restando comunque confermato il parere antielusivo introdotto dall’art. 21 cit.: da qui la coesistenza di due modelli di interpello, quello “ordinario”, di cui all’art. 11 dello Statuto del contr. e quello “speciale”, di cui all’art. 21, L. 413/1991.
In tale cornice ed a fronte dell’introduzione attraverso singole norme, di ulteriori tipi di interpello, c.d. “spuri”, si pose il problema del loro inquadramento nell’una o nell’altra tipologia di interpello e della loro eventuale obbligatorietà.
Il legislatore è quindi intervenuto con il D. Lgs. 156/2015, per riordinare la disciplina degli interpelli, sulla base della delega conferita dall’art. 6, co. 6 della L. 11 marzo 2014, n. 23, per la predisposizione di una disciplina omogenea dell’istituto, elevato al rango di vero e proprio diritto, come appare dalla nuova rubrica dell’art. 11 dello Stat. contr., che da “interpello del contribuente” si intitola ora “diritto d’interpello”.
Il nuovo art. 11 cit. contiene oggi una vera e propria partizione delle tipologie dei vari interpelli, suddivisi in “interpello ordinario”, “interpello probatorio”, “interpello antiabuso” e “interpello disapplicativo”.
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L’interpello relativo a fattispecie antielusive
Con riferimento all’interpello ordinario interpretativo disciplinato dall’art. 11 Stat. contr. e facoltativamente azionabile dal contribuente, non si è mai dubitato della natura di mero parere della risposta.
Diversamente per l’interpello relativo a fattispecie antielusive (di cui all’art. 21, L. 413/1991 e all’art. 37-bis, co. 8, D.P.R. 600/1973), in dottrina si era contrapposta alla tesi della sua natura di parere, quella della natura provvedimentale della risposta, in quanto la risposta positiva all’interpello avrebbe avuto valenza autorizzatoria, nel senso che solo in questo caso il contribuente avrebbe potuto disapplicare la norma antielusiva.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007, affermata la natura di parere della risposta all’interpello, ha continuato a ritenere obbligatoria la presentazione dell’interpello relativo alla disciplina delle società di comodo, ribadendo, nella successiva circolare n. 7/E del 3 marzo 2009, che, per le istanze previste dall’art. 37-bis, co. 8, D.P.R. 600/1973 e per quelle sulla disapplicazione della disciplina delle società non operative, detto parere avrebbe dovuto essere obbligatoriamente richiesto dall’interessato, pur vincolando solo l’Amministrazione.
Secondo le circolari, se il parere non fosse stato richiesto, il ricorso avverso l’accertamento sarebbe stato inammissibile, in quanto in sede di impugnazione dell’atto impositivo, il contribuente avrebbe potuto opporre l’esistenza dei presupposti per la disapplicazione solo se avesse coltivato la precedente fase.
Detto orientamento amministrativo veniva superato dalla circolare n. 32/E del 14 giugno 2010, che pur riaffermando l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza di interpello, riteneva, per i principi generali dell’ordinamento, che la mancata presentazione dell’istanza non determinasse alcuna limitazione nella contestazione giudiziale dell’atto impositivo, ma solo effetti rilevanti ai fini sanzionatori[31].
Obbligatoria o meno che sia l’istanza, la risposta della Pubblica amministrazione rimaneva [e resta] vincolante solo per essa, ma non per il contribuente, che avrebbe sempre potuto adire la giurisdizione tributaria per dimostrare l’esistenza delle condizioni per l’accesso al regime derogatorio, così svuotando di contenuto la previsione dell’obbligatorietà perché privata di conseguenze sfavorevoli.
Contraria all’obbligatorietà, la giurisprudenza, che, con riferimento ad un’istanza di rimborso iva azionata dal contribuente che non aveva presentato l’interpello ex art. 37-bis, co. 8, D.P.R. 600/1973, ha affermato che la procedura di interpello non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione a carico del contribuente prevista dalle disposizioni antielusive, essendogli sempre consentito di fornire in giudizio la prova contraria, in forza del principio di effettività della capacità contributiva garantito dall’art. 53 Cost. [Cass. civ., sez. V, 15 luglio 2014, n. 16183].
L’orientamento della Cassazione si è consolidato, a partire dalla sentenza n. 16183/2014, in senso favorevole per il contribuente, che può sempre far valere le sue ragioni in giudizio, anche se non abbia presentato l’istanza di interpello.
Si può concludere affermando che la risposta all’interpello, compreso quello disapplicativo, non è l’esito finale di un percorso necessario per disapplicare la norma sfavorevole, ma un mero parere che, se favorevole al contribuente, vincola l’Amministrazione; se sfavorevole, o non richiesto, non impedisce al contribuente di procedere come meglio ritiene, fatto salvo il potere dell’amministrazione di esercitare la pretesa impositiva e il correlativo diritto del contribuente di impugnarla in sede giurisdizionale.
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Impugnabilità della risposta all’interpello: giurisprudenza a confronto
Dalla natura dell’interpello, di cui si è trattato nel precedente paragrafo, il passaggio alla questione dell’autonoma impugnabilità della risposta dell’Amministrazione è breve.
In un primo momento la Cassazione aveva qualificato la risposta negativa all’interpello al provvedimento di diniego di agevolazione, inserendola tra gli atti impositivi tipici di cui all’art. 19, lett. h), D. Lgs. 546/1992 [Cass. civ., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8663].
Successivamente, la Cassazione, pur ribadendo l’assimibilità del rigetto dell’istanza di interpello in tema di società di comodo, ad un atto di diniego di agevolazione, aveva rilevato che, trattandosi di atto con cui il Direttore regionale aveva dichiarato improcedibile la richiesta per difetto delle allegazioni documentali, il provvedimento non poteva essere collocato in nessuno degli atti impositivi di cui all’art. 19 cit. [Cass. civ., Sez. V, 13 aprile 2012, n. 5843].
Nello stesso anno 2012, la Cassazione modificava il proprio orientamento, escludendo che il diniego dell’interpello disapplicativo, sia per inammissibilità, che per infondatezza nel merito, fosse assimilabile al diniego di agevolazione di cui all’art. 19, lett. h) cit., né alla previsione residuale della lett. i) del medesimo articolo [«ogni altro atto per il quale la legge ne prevede l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie»; v. Cass. civ., sez. V, 5 ottobre 2012, n. 17010].
Esclusa, quindi, la riconducibilità del diniego ad uno degli atti tipici impugnabili, la Cassazione, richiamando il proprio orientamento consolidato, favorevole all’interpretazione estensiva dell’elencazione dell’art. 19, che dipenderebbe dall’ampliamento del perimetro della giurisdizione tributaria operato dalla legge 448/2001, ha ricondotto la risposta all’interpello nell’ambito della categoria degli atti “facoltativamente impugnabili”, in quanto informerebbe il contribuente di una ben individuata pretesa tributaria, che farebbe sorgere nel destinatario l’interesse ex art. 100 c.p.c. a ricorrere in giudizio.
L’orientamento della Suprema Corte ha e sta incontrando diffuse resistenze tra i giudici di merito, che, pur non contestando la creazione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili, si sono pronunciati più volte per l’inammissibilità del ricorso avverso il diniego di interpello relativo a fattispecie antielusive, dubitando dell’esistenza dell’interesse ad agire del contribuente, vista la natura di parere del diniego, che lascia libero il destinatario di adeguarvisi o meno, fatta salva l’impugnazione del successivo atto di accertamento[32].
Rilevavano inoltre i giudici come l’impugnazione immediata non consentisse di soddisfare l’esigenza di certezza del contribuente sull’orientamento da seguire nella compilazione della dichiarazione dei redditi, non essendo prospettabile l’ottenimento di un giudicato in tempo utile per la presentazione [CTP Bologna, 4 febbraio 2015, n. 177].
Veniva altresì, rappresentato il concreto rischio di ottenere una duplicazione di giudizi sull’identica questione, stante l’impugnabilità dell’atto di accertamento che l’Amministrazione avrebbe poi notificato, se il contribuente non si fosse adeguato alla risposta negativa o il diniego di rimborso se il contribuente avesse scelto quella via [CTR Puglia, sez. XIII, 2 dicembre 2015, n. 2569].
Si sottolineava inoltre l’indubbia salvaguardia dei diritti del contribuente costituta dalla possibilità dell’impugnazione differita del diniego, in occasione dell’impugnazione del successivo atto impositivo, come prospettato dal Consiglio di Stato nella sent. 26 gennaio 2016, n. 414 [v. infra § 10].
Quanto all’Amministrazione, essa restava ferma nel negare la ricorribilità in giudizio avverso le risposte alle istanze di interpello per la loro natura di meri pareri, in quanto tali privi del requisito di “esecutività”, non producendo immediatamente effetti e di “esecutorietà”, non imponendo coattivamente l’adempimento di alcun obbligo, mancando quindi delle caratteristiche atte a determinare la lesione del diritto del contribuente [v. circolare n. 7/E del 3 marzo 2009].
In definitiva, secondo l’Agenzia delle Entrate non si è mai in presenza dell’esercizio di un potere impositivo, né la risposta all’interpello per fattispecie antielusive può essere ricondotta nell’alveo degli atti di diniego delle agevolazioni fiscali, che assoggettano a tassazione fatti già avvenuti.
L’impugnazione della risposta introdurrebbe, inoltre, nell’ordinamento della giustizia tributaria una vera e propria azione di accertamento negativo, non consentita, per non dire che i tempi di formazione del giudicato non sono compatibili con l’esigenza, sottesa all’interpello, di avere una risposta in tempi brevi e che la risposta vincola solo l’Amministrazione, mentre il giudicato entrambe le parti.
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L’intervento del legislatore: l’art. 6, comma 1, D. Lgs. 156/2015
A fronte dei contrasti tra la giurisprudenza di legittimità e quella di merito e della prassi dell’Amministrazione finanziaria è intervenuto il legislatore che con l’art. 6, co. 1, D. Lgs. 156/2015 ha stabilito che «le risposte alle istanze di interpello di cui all’articolo 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, non sono impugnabili, salvo le risposte alle istanze presentate ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 11, avverso le quali può essere proposto ricorso unitamente all’atto impositivo».
La norma si legge insieme al comma 2 dell’art. 11, L. 212/2000, secondo cui «il contribuente interpella l’amministrazione finanziaria per la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi. Nei casi in cui non sia stata resa risposta favorevole, resta comunque ferma la possibilità per il contribuente di fornire la dimostrazione di cui al periodo precedente anche ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa».
La combinazione delle due norme pone il problema interpretativo della previsione di impugnabilità limitata ai soli interpelli disapplicativi.
Secondo la dottrina (Glendi, Tesauro), il legislatore ha escluso la configurabilità – come atto autonomamente impugnabile – della risposta per tutti i tipi di interpello e, con riferimento, all’interpello disapplicativo, si è riferito al sistema della c.d. “tutela differita”, che, «partendo dalla autonoma non impugnabilità dell’atto in sé, ne sposta la tutela giurisdizionale in corrispondenza del ricorso avverso un atto successivo funzionalmente e causalmente collegato» [cfr. Relazione illustrativa al D. Lgs. 156/2015].
In tal modo viene implicitamente richiamata la pronuncia del Consiglio di Stato 26 gennaio 2009, n. 414, che, nell’impostazione propria del diritto amministrativo, assimilava l’impugnazione al diniego di interpello davanti alla Commissione tributaria, considerandolo conclusivo di un procedimento autonomo, all’impugnazione del parere avanti il giudice amministrativo, rilevando che quest’ultimo «ancorchè non immediatamente impugnabile, può essere impugnato unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento e, laddove in esso parere si sia verificato il vizio di legittimità, può certamente essere annullato dal giudice amministrativo unitamente al provvedimento stesso».
Se così è, il tentativo del legislatore di comporre i contrasti giurisprudenziali e di porre un freno alla crescita della categoria degli atti facoltativamente impugnabili, si farebbe forza sul tradizionale meccanismo del sindacato dei vizi degli atti presupposti, non immediatamente impugnabili, ma solo attraverso il ricorso avverso l’atto impositivo [ndr. beninteso, qualora ne venga dedotta l’illegittimità ed essa abbia inciso sull’emissione dell’atto finale].
In questa prospettiva, l’art. 6, co. 1, D. Lgs. 156/2015 non introduce una disciplina diversa per l’interpello disapplicativo, ma recepisce principi tradizionali dell’ordinamento tributario, con la conseguenza che la risposta all’interpello non è un atto impugnabile, in quanto mero parere che si manifesta in una fase prodromica all’attività dell’accertamento vero e proprio.
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Discrezionalità amministrativa ed eccesso di potere (rinvio)
Pur non essendo oggetto del presente intervento, la questione dell’impugnabilità del diniego dell’interpello disapplicativo e, più in generale, dell’impugnabilità dei pareri e dei provvedimenti resi dall’Amministrazione nello svolgimento dell’attività consultiva, ripropone la questione del rapporto tra Amministrazione e Giurisdizione sotto la particolare lente della sindacabilità da parte del giudice amministrativo, qual è il giudice tributario, dell’attività amministrativa di natura discrezionale.
Tra i vizi che tradizionalmente possono minare l’atto amministrativo, l’eccesso di potere, con conseguente suo sviamento rispetto al fine tipico posto dalla legge, costituisce la porta che permette al giudice di intervenire nel merito dell’attività amministrativa.
Declinato dalla giurisprudenza nella carenza di motivazione, nel difetto di istruttoria e nel travisamento dei fatti, il vizio dell’eccesso di potere concorre ad aggravare una malattia congenita della nostra Pubblica Amministrazione ovverosia l’incapacità di prendere le decisioni nei tempi dovuti e di agire sulla base della logica del risultato e degli obiettivi da raggiungere.
In questo contesto, il consolidamento della giurisprudenza favorevole all’allargamento della giurisdizione tributaria agli atti facoltativamente impugnabili, non aiuta, in quanto, insieme ad una legislazione eccessivamente minuziosa e ridondante ed ad una pluralità di controlli che vanno dalla Corte dei Conti all’Autorità contro la corruzione, deresponsabilizza la funzione pubblica e focalizza l’attenzione del funzionario pubblico sul rispetto della legittimità formale del procedimento amministrativo [sull’argomento, si richiamano i ripetuti interventi sulla stampa di S. Cassese].
Milano, 12 dicembre 2017
avv. Antonio Donvito
[1] Fino al 31 dicembre 2001 la giurisdizione delle Commissioni tributarie aveva per oggetto soltanto le liti relative ad un elenco di tributi (imposte sui redditi, IVA, imposte sui trasferimenti, tributi locali, ecc…: dal 1° gennaio 2002 l’art. 12, co. 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), poi completato dalla Legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha esteso la giurisdizione delle Commissioni tributarie a tutte le controversie tributarie.
[2] Nella tripartizione tradizionale dei tributi, l’imposta è il tributo per eccellenza (dovuto a titolo di solidarietà ex artt. 2 e 53 Cost.) e determinato sulla base del fatto economico presupposto; la tassa ha come presupposto un atto o un’attività pubblica ossia la prestazione di un servizio pubblico (ad es. la tassa sui rifiuti) o l’emanazione di un provvedimento (la tassa sulle concessioni governative o il contributo unificato per l’iscrizione a ruolo della cause); il contributo, infine, nel diritto tributario è quel particolare tributo che presuppone l’arricchimento che determinati soggetti traggono dall’esecuzione di un opera pubblica (ad es., l’incremento di valore degli immobili)
[3] Per la Corte costituzionale le leggi tributarie sono caratterizzate da due elementi essenziali: l’imposizione di un sacrificio economico individuale e la destinazione del gettito allo scopo di coprire le spese pubbliche, mezzo al fine di realizzare gli scopi sociali fissati dalla Costituzione; v. Corte cost. 10 febbraio 1982, n. 26 e Id., 12 gennaio 1995, n. 2.
[4] Cass., Sez. un., 13 novembre 1997, n. 11217 (in tema di azioni di rimborso) e Id., 27 marzo 2007, n. 7388 (in tema di diniego dell’autotutela).
[5] Cass., Sez. un., 19 giugno 2015, n. 12759, che ha ritenuto devoluta alla giurisdizione tributaria l’impugnazione del diniego di dar corso alla procedura amichevole prevista dagli artt. 6 e 7 della Convezione europea dell’arbitrato n. 90/436/CEE.
[6] Le cause tributarie di rimborso sono cause di diritti soggettivi affidate alle Commissioni tributarie.
[7] V. Cass., Sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388.
[8] Cass. civ., 11 febbraio 2015, n. 2616.
[9] Cass. civ., 5 ottobre 2012, n. 17010.
[10] Cons. Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2001, n. 732.
[11] Gli atti autonomamente impugnabili elencati dall’art. 19, D. Lgs. 546/1992, sono: a) l’avviso di accertamento; b) l’avviso di liquidazione; c) il provvedimento che irroga le sanzioni; d) il ruolo e la cartella di pagamento; e) l’avviso di mora; e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77, D.P.R. 602/1973; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86, D.P.R. 602/1973; f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate dall’art. 2, co. 3, D. Lgs. 546/1992; g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti; h) il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari.
[12] Prima della novella dell’art. 16, D.P.R. 636/1972, ad opera dell’art. 7 del D.P.R. 739/1981, le interpretazioni analogiche degli atti impugnabili erano giustificate dal fatto che gli atti non indicati nell’art. 16 non erano impugnabili in assoluto, con evidente incostituzionalità del sistema
[13] Cass. civ., 30 novembre 2012, n. 21392; Id., Sez. un., 20 novembre 2007, n. 24011.
[14] Cass. civ., 22 marzo 2002, n. 4125.
[15] Cass. civ., 20 aprile 2016, n. 7927.
[16] Cass. civ., 30 maggio 2001, n. 7407 (quanto all’Amministrazione) e Cass. civ., 20 febbraio 2013, n. 4145 (quanto al ricorrente).
[17] Cass. civ., 22 settembre 2006, n. 20516: il contribuente non può opporre all’Amministrazione un proprio controcredito.
[18] v. Cass. civ., 4 aprile 2014, n. 7961 e 7 maggio 2014, n. 9810 che in tema di elusione hanno stabilito che il giudice non può emettere sentenze sostitutive dell’atto impugnato sulla base di presupposti diversi da quelli assunti dall’Amministrazione a fondamento dell’atto impugnato.
[19] Cass. civ., 9 giugno 2003, n. 9181.
[20] Cass. civ., Cass. civ., 1 marzo 1988, n. 2157.
[21] Cass. civ., 8 novembre 1997, n. 11020.
[22] Cass. civ., 30 ottobre 2002, n. 15305; Id., 20 gennaio 2004, n. 787.
[23] Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2006, n. 3199.
[24] Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2006, n. 3199.
[25] Cass. civ., 15 aprile 2016, n. 7511.
[26] Cass. civ., 20 febbraio 2006, n. 3608.
[27] Cass. civ. 14 ottobre 2016, n. 20798.
[28] Per il commento dell’Agenzia delle Entrate al D. Lgs. 156/2015, si rinvia alla circolare n. 9/E del 1°aprile 2016.
[29] I DD.MM. 194/1997 e 259/1998 hanno regolamentato le concrete modalità di applicazione dell’istituto.
[30] Per la regolamentazione dell’interpello introdotto dalla L. 212/2000, si rinvia al D.M. 209/2001.
[31] La conseguenza era quella dell’applicazione della sanzione prevista dall’art. 11, co. 1, lett. a), D. Lgs. 471/1997
[32] v. CTP Bologna, 4/2/2015, n. 177; CTR Lombardia, sez. XLII, 8/5/2015, n. 1919; CTR Puglia, sez. XIII, 2/12/2015, n. 2569.